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Prima Lettura  Sir 26, 1-4. 13-16
La bellezza di una donna virtuosa adorna la sua casa.
 

Dal libro del Siracide
Beato il marito di una donna virtuosa; 
il numero dei suoi giorni sarà doppio. 
Una brava moglie è la gioia del marito, 
questi trascorrerà gli anni in pace. 
Una donna virtuosa è una buona sorte, 
viene assegnata a chi teme il Signore. 
Ricco o povero il cuore di lui ne gioisce, 
in ogni tempo il suo volto appare sereno.
La grazia di una donna allieta il marito,
la sua scienza gli rinvigorisce le ossa.
E’ un dono del Signore una donna silenziosa,
non c’è compenso per una donna educata.
Grazia su grazia è una donna pudica,
non si può valutare il peso di un’anima modesta.
Il sole risplende sulle montagne del Signore,
la bellezza di una donna virtuosa adorna la sua casa. 

da qualunque posizione lo stupore di un bimbo intuisce l'alto dei cieli

da qualunque posizione lo stupore di un bimbo intuisce l’alto dei cieli

I bambini disegnano il cielo semplicemente con una linea  blu là in alto, del tutto staccata dalla terra, dalla quale è separato da un grande spazio bianco che comprende tutto (case, piante, persone, animali). E’ come se il cielo se ne stesse là nella propria lontananza inaccessibile o forse indifferente per chi, come un bambino appena “venuto al mondo”, è tutto preso dalla scoperta della terra.

Questo mi capita di pensare quando rifletto su quella festa che è l’Assunzione di Maria (all’Assunta tengo molto, proprio perché a Lei è dedicata la chiesa del mio paese d’origine, la chiesa del mio battesimo, dalla mia Prima Comunione, della mia Cresima). L’Assunta ricollega quell’inaccessibile blu alla terra, colora d’azzurro il bianco, lo rifrange d’umanità. In ciò l’Assunta compie e ribadisce il “Fiat” dell’Annunciazione, rende quotidiana la meraviglia del Natale, rende continuamente praticabile la redenzione della terra riscattandola da ogni lontananza dal cielo e da ogni bianco di morte (non a caso, credo, in molte culture il bianco è il colore che significa la morte; vedi per esempio molte maschere funebri africane che sono di colore bianco). 

PunuMukudji

PunuMukudji – Maschera funebre facciale (Mukudji) dei Punu del Gabon

Sta proprio qui. secondo me, il mistero dell’Assunta: avere ridato senso al bianco, come un prodigioso cristallo averlo rifratto nei mille colori dell’iride: L’Assunta è il grande cristallo della Incarnazione e della Resurrezione. il blu con lei ritorna sulla terra e riporta la terra all’alto dei cieli. il Regno di Dio con l’Assunta non è più soltanto un Avvenire (il Padre Nostro dice: “ad-veniat regnum tuum”), ma – sic et simpliciter – un venire, un fiat praticabile, una presenza hic et nunc, qui ed ora. in una parola l’Assunta ci dice che il Paradiso, se vogliamo, è già qui, è già ora. Alla faccia del bianco della morte.

Nell’ora della nostra morte Maria Assunta verrà ad abbracciarci d’azzurro e d’assunzione e ci porterà là in alto nella vertigine della Trinità e dell’amore. E sarà bello salire con Lei fino a toccare e a vivere quella linea di blu intuita dai bambini.

Sembra che l’84% dei lettori del “Corriere della Sera” non abbia trovato razzista l’espressione “vu cumprà” usata dal ministro [sic!] Angiolino Alfano. A parte il fatto che usare le percentuali come criterio di verità non mi pare corretto fin dai tempi di Socrate e di Barabba-Gesù, il mio solito amico spastico dalla nascita mi assicura quanto sia razzista e discriminante essere individuato e chiamato per il proprio modo di parlare (“ti guardano subito come un minus habens, ti danno subito del Tu in modo del tutto gratuito, distolgono immediatamente, lo sguardo e, se per caso sei in compagnia di qualcuno, si rivolgono subito a quest’altra persona proprio come se tu non contassi nulla e non capissi nulla. A me dopo 67 anni, lauree, specializzazioni, vincite di concorsi nazionali, capita ancora quotidianamente e vi assicuro che iniziare così ogni giornata significa vivere continuamente una corsa ad handicap, significa dovere dimostrare sempre che esisti e che non sei scemo, significa non sentirsi mai a pieno titolo persone del proprio mondo (…)”.
Caro lettore mio, prova dunque ad avere un difetto di pronuncia (che, tra l’altro, chiunque in un paese straniero avrebbe, 84% dei lettori Corsera compresi) e a essere individuato, chiamato e considerato in base a questo tuo difetto e vedrai quanto è bello e divertente, verificherai quanto è altamente discriminante e umiliante.
 Vuoi (bada bene, non ti dico “vu”!) anche un riferimento culturale? I greci antichi o, come amavano appellarsi loro, gli Elleni chiamavano gli altri popoli “barbari” che etimologicamente è onomatopeicamente significa “balbettanti” dalla allitterazione della “b”e della “a”, consonante e vocale tanto praticate dal linguaggio infantile. Dunque i cari Elleni, padri dell’Occidente, discriminavano “gli altri” in base al loro modo di parlare, proprio come facciamo noi quando chiamiamo qualcuno “vu cumprà”, proprio come fa l’ineffabile ministro Alfano (mi piacerebbe sentirlo parlare Kazako!), proprio come fa l’84% dei lettori del Corsera, che evidentemente non sa neppure lontanamente immaginare l’origine delle parole e dei pregiudizi che usa.

viva la vita, Rosi,

amore mio,

 

ci incontreremo ancora e sempre,

anche al mio funerale

 

ci metteremo in fondo al corteo

dove nessuno ci vede

dove nessuno sente le dolci nostre parole

e sono solo nostri

i nostri infiniti baci

 

e lì al mio funerale

faremo come sempre l’amore

 

mai l’abbiamo fatto

al mio funerale

 

al mio funerale, vedrai,

non mancherò l’appuntamento

Temo le strutture totali come le carceri, i ricoveri in ospedale e certi ambienti di lavoro. Temo la mancanza di libertà che vi si respira, la mancanza del rispetto della persona che troppo spesso le abita, la frase che spesso vi viene detta: “noi eseguiamo gli ordini”. È, guarda caso, la stessa frase che ripetevano i gerarchi nazisti a Norimberga e gli impiegati e i funzionari dei campi di sterminio e dei gulag. E per fortuna, grazie a quel santo uomo di Franco Basaglia, non ci sono più i manicomi, almeno sulla carta.

Sei Tu l’unico te
     caldo e biondo
che amo assaporare
     ogni giorno alle cinque,
quando d’estate
     ancora non si affaccia la sera,
quando Tu chiedi a me:
     “desideri, Gigi, qualcosa?”,
quando io rispondo a te:
     “desidero, Rosi, solo un po’ di te”.

                                                    (Ospedale, 6-7-2014)

Non è vero che i giocatori della Nazionale fossero tutti cotti.

Chiellini era al dente!

 

Perché l’Uruguay ha battuto l’Italia? Perché aveva più mordente!

 

 

Oggi compio 67 anni. Per uno che era già stato dato per morto alla nascita e che, comunque, non sarebbe vissuto più di 15-20 anni di “vita vegetativa”‘ mi pare un buon traguardo. So l’arte del sopravvissuto, so l’arte del vivere comunque, del parlare comunque, del camminare comunque. Sono un comunque. Comunque di nome e comunque di cognome. Comunque di principio e comunque di fatto, ma comunque vivo. Quasi mi piace essere un Signor Comunque. Respirare comunque, gioire comunque, è comunque bello, bellissimo, stupendo, travolgente, entusiasmante, Sono papà Comunque, nonno Comunque, marito
Comunque. Viva comunque e bacioni a tutti i Comunque del mondo. La vita è comunque bellissima, comunque gioiosissima, comunque con Rosi, la più bella dell’universo. Grazie alla vita e grazie a comunque, l’avverbio più bello e più comunque che c’è.

43 anni fa, a circa le 11 del mattino, Rosi e io ci siamo incontrati per la prima volta, su al Rifugio “Madonna delle Nevi”, in quel di Mezzoldo , lungo la ” Strada Priula”, che porta dalla Val Brembana su al passo San Marco. Incontro favoloso della mia vita, gioia su gioia, vita su vita, canto su canto, introito al Paradiso, arco voltaico di amore e redenzione. Da allora il mondo è più bello, l’universo  più sapiente e più gustoso, le creature più felici, perché allora è nato il noßtro amore concepito dall’eternità, voluto dal Padre, invidiato dagli angeli. Rosi, da allora,  è diventata sempre più bella e non hai mai smesso di avere 20 anni. Io sono rimasto, da allora, lì con la bocca aperta, stupito di stupore, innamorato d’amore, privilegiato più di ogni altro privilegiato, ringraziando l’amore del Padre, la fantasia dello Spirito e l’amicizia di Gesù, che da allora è sempre stato con noi, in noi e – speriamo – attraverso di noi. 

Chi guarda in basso, può soffrire di vertigine. Chi guarda in alto, può godere di vertigine.

Ciao, Maria, piena di grazia,

il Signore è con Te!

seconda-pagina2

Mi scoccia sempre dire: “io l’avevo detto già da tempo, ma alcune volte mip are doveroso farlo. Su “il fatto quotidiano” ho letto l’articolo http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/08/romania-80mila-orfani-bianchi-le-loro-madri-assistono-noi-e-lasciano-soli-loro/906957/ , che denuncia il doloroso dramma delle badanti,  che lasciano figli,  mariti, casa, patria, per venire a curare i nostri vecchi.
Anche per ricordare la giornata di ieri dedicata alla donna ripropongo qui il mio post del 10 settembre 2008 sul tema del dramma delle badanti.

Badanti e anziani: quanta violenza!

Nessuno, che io sappia, dice di una grave violenza in atto: moltissime tra le badanti che accudiscono i nostri anziani sono per lo più donne che lasciano in Bolivia o in Ucraina mariti e figli anche molto piccoli. Chiedo quanto sia giusto che i diritti dei matrimoni e delle maternità di queste donne vengano ignorati e che l’intero tessuto sociale dei loro paesi di provenienza subisca la devastazione di coppie che per anni non si potranno vedere, di madri espropriate della loro maternità, di figli che di fatto non conosceranno le loro madri o non le avranno vicine in età tanto fondamentali. È corretto che il diritto all’assistenza dei nostri vecchi prevalga a tale punto?
Come cristiano, mi fa male anche pensare che molte di queste badanti, soprattutto quelle sudamericane, arrivino qui più o meno direttamente aiutate dalla chiesa, che in tale modo si fa complice del disastro in atto.
Non sarebbe più giusto e corretto da un lato favorire lo sviluppo di quei paesi, in modo tale che mogli e madri restino e vivano nelle loro famiglie?
Molta della emigrazione italiana a cavallo tra ottocento e metà novecento riguardò prevalentemente i maschi: ancora oggi, a distanza di due, tre o più generazioni – lo vedo nel mio lavoro terapeutico –  ci sono ferite aperte, squilibri non recuperati, sofferenze ancora attive, tutte dovute alla assenza per mesi e mesi dei padri di una o più generazioni. Ebbene, mi chiedo, che cosa può portare allora l’assenza per anni della madri, che per molti aspetti, soprattutto quando i figli sono piccoli, hanno ancora più importanza dei padri?
Tra l’altro, dal punto di vista nostro e dei nostri vecchi, mi domando quanto sia corretta una assistenza di questo tipo. Il vecchio resta sì nella sua casa, ma di fatto vive isolato, spesso ha l’unica sua relazione sociale significativa proprio con la badante, che è di una cultura e di un mondo lontano da quello del vecchio, che ha il cuore e la mente lontani, che, ben di rado, ha interessi che possono coniugarsi con quelli dell’anziano, così da potere intrattenere con lui un dialogo davvero significativo. D’accordo alcune situazioni non sono tanto negative, ma la logica stessa delle cose ha in sé le conseguenze che ho indicato.
A sostegno della scelta della badante, viene indicato il fatto che le nostre case di riposo sono uno squallido terminal, soltanto un luogo dove si va a morire, quindi qualcosa da evitare in tutti i modi, pena terribili sensi di colpa che prenderebbero figli e parenti all’idea che il loro vecchio stia in queste “orribili” strutture. So di strutture bene pensate e bene attuate, dove la vita dell’anziano è stimolata, interessante, ricca di occasioni, sorretta da personale competente, preparato e ben motivato; ma, pure ammettendo che siano tutte strutture insufficienti, mi chiedo fino a che punto tale insufficienza non sia a sua volta la conseguenza di un mancato impegno sociale e istituzionale a che esse funzionino al meglio: se ciascuno pensa unicamente alla badante del proprio anziano, come si potrà strutturare una risposta sociale davvero significativa e adeguata alle esigenze del problema? Siamo poi così sicuri che le badanti siano davvero così brave e premurose come si vuole a tutti i costi volere credere? Noi, al loro posto, potremmo dare a un anziano sconosciuto quella attenzionne, quella premura e quell’affetto che non possiamo dare a nostro marito e ai nostri figli? Potremmo, curandolo, dimenticare quanto è dilaniato il nostro animo, proprio a causa di questo lavoro che ci separa dal nostro mondo e dai nostri amori

Finalmente una bella notizia: siamo anche gente felice, che sa danzare e gioire con partecipazione. E Como non è soltanto la cittá che difende i preti pedofili e uccide le ragazze nei sottopassi. A riprova ecco il resoconto di una bella serata comasca, che parla di incontro con culture diverse e di difesa dalla stupida intolleranza e dallo stupido perbenismo di qualcuno più uguale degli altri.

Come va’? Io ieri  sera sono andata a sentire i Tinariwen al Sociale, non ero convintissima, avevo ascoltato qualcosa su youtube e non avevo gran voglia.

Poi ho letto che abitavano a Tammanrasset, nel sud dell’Algeria, proprio la città da cui ero partita per il viaggio nel deserto, così ho deciso che, se avessi trovato i biglietti, sarei andata a sentirli.
Sono restata in attesa dell’apertura della biglietteria (un quarto d’ora di ritardo!) e ho trovato un biglietto in platea, laterale (il Sociale era quasi pieno).
Sono usciti vestiti in modo tradizionale, uno solo non aveva il copricapo tuareg, ma aveva bellissimi capelli ricci.
Hanno iniziato con una canzone e, dopo i tenui applausi hanno detto un un “ca va?” un po’ preoccupato,
Così è continuato per quattro o cinque canzoni che iniziavano dopo un “ca va?”( a cui un po’ di gente rispondeva “bene” e altri ridacchiavano), e terminavano con un “grazie tutti” stentato.
Poi è successo che una ragazza si è alzata e ha iniziato a ballare sotto il palco copiando i movimenti di uno di loro, in breve molti altri l’hanno imitata, erano circa una quarantina, forse più, sotto il palco. La musica era coinvolgente, purtroppo non si capiva nulla dei testi (avrei voluto i sopratitoli!), la gente seguiva le indicazioni per il battito ritmico delle mani e poi…
proprio davanti a me, circa quattro file prima, un signore piccolo e grassottello, si è alzato e con passo marziale si è diretto verso il fondo della sala. E’ ritornato quasi subito seguito da due maschere (uomini) un po’ allarmate. Ha iniziato ad indicare i ballerini con aria molto infastidita. Le maschere hanno iniziato a parlare alle persone che danzavano ma non sono venute a capo di nulla. Poi hanno proposto al signore di cambiare posto (gli indicavano un posto centrale in platea), dopo un po’ di scompiglio il signore e la sua dama si sono alzati e lì è accaduto il peggio: dai palchetti sopra di me alcuni hanno iniziato a fischiare e una voce d’uomo ha urlato ripetutamente (al signore in marcia) “Vai a casa, va’!”.
Poi tutto si è calmato di nuovo, la gente che ballava è diventata sempre più numerosa e l’atmosfera era davvero rilassante.
Alcuni tuareg finalmente sorridevano.E soprattutto non si sentiva più “ca va?”
Alla fine una ballerina più intraprendente degli altri è passata dalla platea al palco e si è improvvisata in una danza che sembrava più quella dei sette veli che un ballo tuareg… ma va beh… è durato poco!
Comunque sono contenta di esserci andata.
I tuareg sono un bel popolo, che si sta estinguendo purtroppo.

Signore, mi riempie l’animo di profondo e totale dolore che ci siano coppie e, in esse, uomini e donne che in epoca di crisi ritengano “necessario” e “giustificato”, uccidersi o abortire un figlio. Dove siamo mai arrivati? Signore, non fare mai che tali pensieri e idee stiano nel cuore dell’uomo. Tu, che sei nato nel più improbabile e difficile dei modi, aiuta l’animo di chi abbia o abbia avuto questi pensieri, li renda o li abbia resi possibili. Signore, stacci vicino, dacci l’amica, sorridente, forte speranza in Te e nella vita.

 

Se la vita affettiva fosse la camera di compensazione di tutto il resto,

ogni affetto sarebbe preceduto da un “però”.

Ricevo da Como una mail di segnalazione della lettera del parroco della parrocchia di don Mangiacasale, che, pure avendo abusato di bambine innocenti ed essendo condannato, era riuscito a evitare il carcere. Più veloce ed efficace della giustizia italiana, il Vaticano di Papa Francesco ha ridotto allo stato laicale (la massima punizione possibile) don Mangiacasale. Cosa questa, che, a quanto pare,ha suscitato a Como solo sentimenti di “misericordia” nei confronti di don Mangiacasale. Ancora più bella appare dunque la lettera del Parroco, che con grande piacere riporto qui sotto.

“Ho letto e riletto con molta attenzione il commento di mons. Angelo Riva, Vicario episcopale per la cultura, alla notizia della dimissione dallo stato clericale comminata dal Papa a Marco Mangiacasale.

Ho letto quanto scritto e ho apprezzato molto l’invito alla misericordia verso il peccatore e la certezza che “tutti coloro che in vario modo hanno patito scandalo e ferita da questa dolorosa vicenda – a  cominciare dalle vittime e dalle loro famiglie, così duramente colpite nei loro affetti più intimi – possono riprendere, faticosamente, ma con speranza, il cammino che ci porta ad essere più umani”.

Ho letto la solenne affermazione “la Chiesa di Como sa di volergli (a Marco Mangiacasale ndr) bene, e di dovergli porgere, dopo l’aceto aspro della giustizia, il balsamo della misericordia”.

Ma mi sarebbe piaciuto leggere anche che la Chiesa di Como sa di voler bene alle ragazze abusate da Marco Mangiacasale, le guarda con la tenerezza e il dolore di una mamma colpita nei suoi affetti più cari, nei suoi tesori più preziosi, si preoccupa con sollecitudine di loro, si china con trepidazione sulle loro ferite, fa suo il loro dolore.

Mi sarebbe piaciuto leggere che la Chiesa di Como sa di voler bene alle famiglie di queste ragazze, famiglie che non sono entità astratte, ma sono persone, mamme, papà, fratelli e sorelle, nonni; persone che hanno sofferto e che continuano a soffrire, anche fisicamente, che si portano dentro un dolore non capito, sottovalutato, a volte (e mi duole dirlo) sbeffeggiato e ridicolizzato. Comunque sempre sminuito. Famiglie che hanno avuto la “colpa” di aver creduto nel prete, nell’amico a cui affidare le proprie figlie, a cui aprire le porte della propria casa e del proprio cuore.

Avrei voluto leggere che la Chiesa di Como sa di voler bene alla Parrocchia di San Giuliano, che non è un’entità astratta, ma sono persone, bambini, giovani, adulti, anziani, che hanno sofferto e che soffrono tanto, che combattono per mantenere salda la propria fede, così duramente messa alla prova, che non hanno mai avuto il conforto di una parola, di una vicinanza concreta; una Parrocchia che, dalle parole di certi monsignori, è stata e viene ancora scossa e scandalizzata, perché, grazie a Dio, è una Parrocchia che rimane capace di scandalizzarsi e sa chiamare il male con il suo nome, senza strani giri di parole e frasi sibilline, dando alle persone il peso e la statura morale che hanno, al di là  del ruolo ecclesiale che ricoprono.

Avrei voluto leggere… ma non ho potuto, perché tutto questo non c’era, nel commento di mons. Riva apparso sul sito ufficiale della Diocesi di Como. Il pensiero (cattivo, lo ammetto) che mi è venuto è che tutto questo non c’è nel commento perché non c’è nel cuore.

Mi permetto, alla fine, qualche considerazione. Innanzitutto sull’identità della ”Chiesa di Como”. Non so a quale parte della Chiesa di Como si riferisca mons. Riva, forse a quella che frequenta lui, quella dei passi felpati nei sacri palazzi, passi prudenti per non disturbare il potente di turno; forse a quella di coloro (preti, religiosi/e, laici) che pensano che bisogna coprire, nascondere, tacere, che ritengono che lo scandalo non sono gli abusi sessuali di un sacerdote su cinque ragazzine ma l’averli portati alla luce, quella di quegli appartenenti al clero (e mi vergogno per loro) che sostengono che “in fondo, che cosa ha fatto? Ha dato una “paspatina” a qualche ragazza” oppure che ”l’hanno condannato per due messaggini”; forse a quella dei deliranti messaggi di sostegno al reo ormai confesso sul suo profilo Facebook (a proposito: don Ferdinando Di Noto, fondatore di METER, ha informato i genitori delle ragazze abusate che il suddetto profilo è ancora presente e contiene molte foto di ragazzi/e di San Giuliano. E’ mai possibile?); forse a quella dei comunicati stampa pieni di belle parole che nascondono l’assenza di gesti e, forse, persino di sentimenti.

Assicuro a mons. Riva che c’è anche un’altra Chiesa di Como. Non sta nelle alte sfere, prega e soffre per Marco Mangiacasale, sa benissimo che un prete (come chiunque altro) fa del bene e fa del male, ma sa chiamare le cose con il suo nome. C’è una Chiesa di Como che si mette in riverente ascolto del Papa, che non lo giudica uno sprovveduto e che comincia a pensare che se ha preso un provvedimento così drastico, in un tempo così breve, con una certa procedura pur avendone a disposizione altre, qualche motivo deve averlo avuto e non sta solo nella gravità dei reati commessi. Questa Chiesa di Como è fatta di persone normali, di mamme, papà e nonni che hanno a cuore i loro figli, i loro nipoti, i loro preti e le loro Parrocchie, persone che hanno un sentire antico e sapiente, che rifugge inorridito davanti alle arzigogolate acrobazie dialettiche dei teologi moralisti ed è ben capace di distinguere il bene dal male, senza bisogno di dotte lezioni, persone che hanno a cuore la Chiesa! C’è una Chiesa di Como che non fa comunicati stampa, ma sa essere vicina e solidale concretamente, con un sorriso, un abbraccio, una telefonata e che riesce ad essere piena di amorevole tenerezza non solo verso i peccatori, ma anche verso le loro vittime. C’è una Chiesa di Como che non ha paura della verità: è fatta di preti e di suore e di frati e di laici, di uomini e di donne che la vorrebbero vedere, questa Chiesa, bella e con qualche ruga in meno. Anche questa, caro mons. Riva, è Chiesa di Como.

Aggiungo, da povero prete “badilante”, un consiglio. Quando la propria presenza crea disagio e imbarazzo la persona intelligente si tira da parte. Le dimissioni le può dare anche un Vicario Episcopale, tanto più se occupa quel posto da oltre dieci anni.

Auguro a tutta la Chiesa di Como tempi migliori!

P.S. In questi due anni sono stato in silenzio, contando di fare le mie considerazioni solo dopo la sentenza della Cassazione. Adesso, però, tacere mi sarebbe sembrato vile, poco caritatevole e contrario al Vangelo. Quanto ho scritto lo dovevo alle cinque ragazze, alle loro famiglie, alla Comunità di San Giuliano, che il Signore mi ha affidato. Lo dovevo a tutti gli adolescenti e le adolescenti che si affacciano alla vita, con tutte le loro paure e le loro fragilità e hanno diritto di trovare adulti attenti, rispettosi, amorevoli e forti e non sfruttatori e manipolatori. Lo dovevo a tutti quei davvero bravi preti che sgobbano e sudano nelle nostre Parrocchie per annunciare con limpidezza e coerenza il Vangelo e si ritrovano infangati dalle nefandezze di pochi. Lo dovevo alla mia coscienza: un ulteriore silenzio sarebbe diventato complicità.

Lo dovevo, forse, a tutta la Chiesa di Como.”

 

X

 

 

non è come nasci,

ma come muori,

che rivela

a quale popolo tu appartieni.

(ALce Nero, Lakota, 1890)

A ricordo di quanti sono morti nel canale di Sicilia oggi e in tutti questo anni. 

poesia del clandestino

 

vorrei salire su un gommone

rischiare la morte in mezzo al mare

e potere vedere l’Italia

 

come la vedono loro

 

con i loro occhi spalancati

di chi fugge le paure

 

con i loro sguardi di attesa e futuro

di spregiudicata speranza

di fede disperata

 

con la ricchezza

di chi sa rischiare tutto

 

con la povertà

di chi non vuole nulla

perché attende tutto

 

vorrei tenermi in bocca l’Italia

come sanno fare i bambini

quando tengono in bocca il bello e il nuovo

 

vorrei gustarla con l’arguzia

della bocca curiosa

affamata di speranza e futuro

la bocca di un bambino

la bocca balbettante del clandestino

 

vorrei amarla con la loro disperazione

sognarla con il loro coraggio

 

vorrei desiderarla

come loro nelle loro utopie incarnate

sanno desiderare la vita

 

vorrei sposarla

con l’arte del distacco totale

lasciando i padri e le madri

come sanno fare le loro fami e le loro seti

 

con questa terra

vorrei concepire i miei figli

entrando nella vagina delle esclusioni

fecondandola del seme

di chi cerca sé stesso

facendola partorire di popoli nuovi

numerosi come le stelle del cielo

e i granelli di sabbia dei mari

 

sarà bello il giorno dello sbarco

il primo bacio

là sul confine delle onde

dove il tempo dell’attesa

si schiude e sa guardare le epoche

e pregare l’assoluto

 

Quando penso a quanto è bello il Paradiso,

tu, morte, sei sempre in ritardo.

 

“Noi Tre” è stato pubblicato dalla Pulcinoelefante di Alberto Casiraghy, illustrato dagli ori del maestro Luigi Mariani. Colgo l’occasione per ringrazare sia Luigi Che Alberto, miei cari amici.

Il mio solito amico giornalista mi invita a commentare la lettera che il cappellano ospedaliero (a Monselice) don Ferdinando Bodon ha inviato a Matteo Pegoraro, che alle recenti elezioni amministrative è stato candidato sindaco al comune di Solesino (Padova). Matteo Pegoraro, 27 anni, studente in Giurisprudenza a Firenze, è gay dichiarato, innamorato di Niccolò. Metto qui sotto la lettera di don Ferdinando, scritta in dialetto padovano e, più sotto, il commento richiestomi.

Ecco la lettera di don Ferdinando, pubblicata ieri mattina da “il Mattino di Padova”:

Caro el me prof. Matteo, anca se non te conosso (ma conosceva molto ben to nono Vaj) lassa che te fassa e me congratueasion dea voja che te ghe de deventare Sindaco dea me Soesin…

No! No! No te fasso e congratueasion, ma te assicuro che go sentio on colpo al core! Ma, benedeti del cor de Dio (parchè anca voialtri si so fioi) ve ghio mai domandà parchè si qua al mondo? O mejo te fasso ea domanda direta: “Ti (laureà in giurisprudensa ma non in umanità) sito contento de essare al mondo?”. Penso che te me rispondi de sì! Bene! E chi xe che te gà fato?Do omani o do femene oppure on omo e na femena? Quindi ringrassia to popà e to mama. Come a dire che sensa de eori no te sarrissi gnanca al mondo. E quindi gnanca gay.

Varda che mi no te giudico parché soeo el Signore xe bon de farlo; ma gnanca posso tasare so sto andamento che giorno dopo giorno sta diventando na vera caeamità. Gabi el corajo de lesare sta pagina che te mando parchè te gabi de renderte conto del mae che “sti presunti diriti civili” ga fato e continua a fare. Sta calmo, ste calmi, parchè de sto passo fe finire el mondo, oppure penseo che ea storia de Sodoma e Gomor xè na baea? Ripeto: no ve condano, ma bisognaria che no ve gloriassi massa de essare cossì.

A Bataja gaveva tre amissi (parlo de 70 ani fa e quindi sta anomalia ghe xè sempre sta) e te posso assicurare che no ghemo mai fato storie e mai se ghemo insultà. Che ghe sia sta de quei che ga tolto in giro ste persone, sapi che el primo xé sta no el Papa e gnanca i preti, ma el signor Tognazzi col film “el vizietto”. E barzeete no xé nostre…

Go visto che te sì laureà e quindi el Signore te ga dà abastansa inteigensa e quindi te poi arivare a capire che sta omosesuaità non xe roba naturae, ma na disfunsion, oppure sito anca ti de quei che dixe che non xe normai i omani che se marida coe done?

Scusa se so caustico, ma se fasso ea raccolta de queo che tanti purtropo mezi de comunicasion fa e dixe dea Cesa… Beh! no n so quante pagine vegnaria fora. E so anca che parfin el sindaco Renzi te gavaria scartà! Vuto stare col to amigo? W ea libertà! Ma no pretendare che ea sia to mojere! E de ciamare matrimonio queo che ea Costitusion no dixe.

Ciao e no sta rovinare el nome de Soesin parchè, caso mai, te sì de Stanghea.

D. Ferdy

E, caro Matteo, non mi interessa se questo fenomeno diverrà globale, perché resterà sempre uno dei 4 peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. Li conosci? 1) Omicidio volontario (aborto), 2) Peccato impuro contro natura (omosessualità), 3) Oppressione dei poveri, 4) Defraudare la mercede degli operai.

E che Dio ti aiuti

Ecco il mio commento:

  1. Don Ferdy (così si firma) giudica, condanna e consiglia Matteo. Lo fa senza esserne richiesto. Già questo è una violenza (in base a quale diritto lo fa?). Già questo non mi pare cristiano (Gesù interviene sempre su richiesta, si incarna dopo il “Fiat” di Maria, accetta la passione e la morte in croce solo perché il Padre glielo chiede, ecc.).

  2. Don Ferdy (così si firma) prende lui l’iniziativa di scrivere. Come insegna l’analisi del comunicare, chi inizia una comunicazione, è sempre – lui! – il portatore del problema. Quindi, a essere interrogato dal problema della omosessualità, è prima di tutti don Ferdy (così si firma). Anche se pensa e crede di parlare “per” Matteo, parla prima di tutto “per” sé stesso, per un problema che interroga e inquieta sé stesso. Se si prova a leggere in questa prospettiva la lettera, questa risulta rivolta alla parte più antica, remota, tellurica e dialettale del Sé di don Ferdy (così si firma), come se egli si rivolgesse al Ferdy ragazzino, per dirigerlo e correggerlo, minacciando l’ “urlo” e la “vendetta” di Dio. Se si prova a leggere in questa prospettiva la lettera, c’è da chiedersi che senso e che funzione abbiano avuto e abbiano la religione per don Ferdy (così si firma). Religione come minaccia? Religione come coartazione? Religione come terrore e terrorismo morale? E quale idea di Dio ha don Ferdy (così si firma)? Di un padre che ama e crea o di un vendicatore suscettibile all’ “urlo” del “peccato”?

  3. Il tono della lettera di don Ferdy (così si firma) è di richiamo. Gesù annuncia (questo significa la parola “evangelo”), don Ferdy (così si firma) richiama. “Richiamare” significa, letteralmente, “chiamare indietro”. In effetti la lettera è tutta nel segno della regressione. In questa prospettiva, anche l’uso del dialetto risulta regressivo, come è regressivo il richiamo a sé stesso che, come detto sopra, don Ferdy (così si firma) fa con questa lettera. “Torna indietro”, pare dire don Ferdy (così si firma): a sé stesso, a Matteo, alla lingua, al mondo, alla vita. Gesù di solito dice “Vai!”, non dice “torna indietro”.

  4. Don Ferdy (così si firma) è fuori da ogni logica scientifica. È ancora fermo al becerume cattolico alla Giovanardi, che più o meno dichiaratamente è convinto che la omosessualità sia una “disfunzione”, mentre da un sacco di tempo la comunità scientifica lo nega decisamente. Questo risulta ancora più preoccupante, se se pensa che don Ferdy (così si firma) è cappellano ospedaliero e, in quanto tale, opera all’interno della sanità e del mondo scientifico, a contatto con la malattia e la sofferenza. C’è da chiedersi con quale criterio sia stato nominato cappellano, che idea abbia della malattia e dei malati, come eserciti il proprio apostolato tra i malati e le “disfunzioni” (quelle vere).

  5. Don Ferdy (così si firma), sempre alla Giovanardi, propone di fatto (qualcosa “di fatto” proprone pure lui!) la doppia morale: in privato fai pure, purchè in pubblico non lo dica. Se vuoi proprio “fare” il gay (come se l’omosessualità fosse un “fare” da scegliere, e non un “essere” da vivere!). Se c’è qualcosa di immorale, a mio avviso è proprio questa doppia morale, contrabbandata come tolleranza e comprensione.

  6. Don Ferdy (così si firma), sempre alla Giovanardi, si trincera dietro la concezione che per fare una coppia ci vogliono “on omo e na femena”. Non viene mai notato, ma dietro questa concezione sta una antropologia: si considerano l’uomo e la donna esclusivamente in base alla morfologia dei genitali (se hai il pisello, sei uomo; se hai la patatina, sei femmina). Chiunque si accorge di quanto riduttiva e non scientifica sia una concezione del genere. Restare fermi a questa concezione, significa essere fuori dalla logica e dalla realtà. Femminile e maschile non sono “dati” legati alla morfologia dei genitali; sono invece entità relazionali che non preesistono alla relazione, ma semmai ne derivano.

  7. Don Ferdy (così si firma) è ancora legato all’idea che esistano a pieno diritto i concetti di “natura” e di “naturale”, come se secoli di scienza e millenni di filosofia non ci avessero insegnato nulla, come se l’etnologia e l’antropologia culturale non ci avessero detto quanto decisivo e primario sia il dato culturale. A dire il femminile e il maschile è non la “natura”, ma la cultura. E quale cultura abbia don Ferdy (così si firma) risulta evidente dalla lettera. A essere omofoba è la cultura e non la natura; è la cultura e non la creazione; omofobo è don Ferdy (così si firma), non Dio.

    Mi chiedo che cosa pensi don Ferdy (così si firma) di Gesù, di Maria, della Incarnazione e della Risurrezione. Gesù non è stato concepito e non è nato da “on omo e na femena”, ma dallo Spirito Santo e da Maria; guai se si fosse candidato sindaco di Betlemme o di Nazaret. In base a quale “disfunzione” poi Maria ha concepito e partorito, essendo e restando vergine, concependo con Dio e partorendo lei creatura il Creatore (“figlia del tuo figlio”, le dice Dante)? In base a quale “disfunzione” e a quale stravolgimento della “natura” Gesù si è poi permesso di farsi uomo, di prendere corpo, di soffrire e morire? E come si è permesso poi di risorgere, sfuggendo alla morte e sconfiggendola? 

Il 10 maggio 1933 il nascente nazismo, per mano di Goebbels, mise in pratica il rogo dei libri di tutti gli autori che, secondo la becera e barbara ideologia nazista, corrompevano la cultura tedesca; in particolare furono bruciate le opere degli autori non tedeschi, degli ebrei, degli artisti “degenerati” (cioè di quasi tutti i più significativi geni dell’ ‘800 e del ‘900).

Voglio ricordare questa data perché il rogo dei libri del 1933 poteva e doveva bastare perché si capisse che cosa era il nazismo e perché se ne impedisse l’affermazione. Purtroppo non bastò.

Bruciare un libro, qualsiasi libro, è un atto di estrema barbarie, una rozza messa in atto della idiozia, una micidiale uccisione di umanità e vita.

Purtroppo oggi i nazisti non dovrebbero faticare troppo a fare roghi. Molte delle nostre case sono prive – del tutto o quasi – di libri. In molte case neppure si compra il giornale. Moltissimi sono coloro che non hanno mai letto un libro in vita propria. Addirittura ci sono tantissimi laureati che dal tempo della scuola non hanno più letto un libro. E – forse ancora peggio – ci sono insegnanti di lettere che non sanno comunicare la minima passione per la lettura, non sanno incuriosire ed entusiasmare i propri allievi facendoli innamorare della cultura e dei libri. Idem per genitori, che magari urlano ai propri figli di studiare e mai (dico mai!) si sono fatti vedere con un libro in mano.

Sono roghi preventivi molto più catastrofici di quelli nazisti.

Poi non lamentiamoci se l’ignoranza va al potere e se veniamo governati da emeriti e rozzi imbecilli o da mistificatori che speculano sulla nostra mancanza di senso critico, di cultura, di informazione ecc.

Quando succede qualcosa di imprevisto, ci si sente smarriti. Più l’imprevisto ci riguarda da vicino, più lo smarrimento cresce. Se l’imprevisto riguarda le cose a noi più familiari, siamo presi dallo spaesamento, che è una parola sulla quale la psicologia (Freud dedicò a questa parola un saggio nel 1919) e ancora meglio la filosofia ha riflettuto parecchio: Heidegger ci ha riflettuto a lungo in tante sue opere. Lo spaesamento traduce la parola tedesca das Unheimliche, che propriamente significa “ciò che non è familiare”, “ciò che è estraneo”; si rifà al temine tedesco das Heim, che indica “la casa”, “il focolare domestico”, “la dimora familiare”. Ebbene nulla è più spaesante di quanto possa capitare di imprevisto alla casa, alla famiglia. È così spaesante da coincidere con l’angoscia più profonda e destabilizzante, quella che paralizza e porta alla perdita di sé, della propria identità, del proprio mondo: ci si sente «nessuno» di fronte al nulla. Non a caso Heidegger riprende e approfondisce con grande vigore la riflessione sull’angoscia fatta da Kierkegaard.

Ripensavo a questo, di fronte al crescere terribile di eventi di omicidio-suicidio, che hanno come proprio luogo e tempo la casa, la famiglia. Altro che IMU o ICI! A minacciare le nostre case siamo noi stessi con fatti di sangue sempre più tremendi, di fronte ai quali neppure Eschilo e Sofocle avrebbero potuto immaginare niente di più tragico.

La casa e la famiglia sono il luogo-tempo più nostro, dove ciascuno di noi vive le relazioni più profonde, quelle che dovrebbero dare l’identità e la conferma di sé. Se proprio questo luogo-tempo si rivela come il più spaesante, che succederà? Se famiglie apparentemente “normali” e “come tutte le altre”, dove, a detta di chi le conosceva, “regnava l’armonia”, hanno in sé la possibilità della estrema violenza e della catastrofe irreparabile, che potrà mai succedere a tutti noi?

Il mio lavoro di psicoterapeuta si rivolge in modo diretto alle famiglie e alle loro dinamiche relazionali. Proprio da questo punto di osservazione e sulla base di quanto mi tocca vedere ogni giorno, posso ripetere che, purtroppo, a stupirmi è non tanto che ci siano questi terribili fatti di sangue, quanto che – per fortuna – siano ancora così pochi. Ho da tempo denunciato in questo blog la “neandertalizzazione” della famiglia e il crescere vertiginoso delle dinamiche incestuose che caratterizzano le nostre famiglia, portando alla implosione della famiglia (non a caso ho titolato Implosione il mio ultimo libro pubblicato su internet al sito www.ilmiolibro.kataweb.it ). Pochissima eco hanno avuto le mie parole (unica eccezione un’intervista da parte di “Famiglia Cristiana” online); se non sei un già noto, in Italia non vieni ascoltato.

Nessuno, per esempio, dice in modo chiaro quanto da più di mezzo secolo la psicologia e la clinica psicoterapeutica sistemiche vanno ripetendo, confortate dai grandi risultati clinici prodotti: che la genesi dei disturbi mentali, in particolari dei più gravi, cioè quelli di area psicotica (la psicosi, la schizofrenia, la anoressia, la bulimia ecc.) hanno la loro genesi nella disfunzione delle relazioni familiari, disfunzione che peggiora di generazione in generazione e che è la vera causa delle gravi patologie psichiche. Si lascia ancora credere e pensare che alla base dei disturbi mentali ci siano cause organiche, curabili con gli psicofarmaci. Nel mantenimento di questo stato di ignoranza colludono la scarsa informazione (l’ignoranza, dunque, di grandissima parte dei giornalisti e dei direttori di giornali, radio, televisioni) e gli interessi di grandi lobbies quali le case farmaceutiche e gli ordini professionali. Si preferisce lasciare credere e pensare che la famiglia sia “il fondamento sano della nostra società”; e, per quanto riguarda il disturbo psichico, la mentalità corrente sotto sotto è ancora quella del “”a chi la tocca, la tocca” di manzoniana memoria.

È inutile che ripeta qui quanto ho già scritto; il lettore di questo blog può andarsi a rileggere i numerosi post dedicati alla famiglia, alle dinamiche patogene che spesso la caratterizzano, alle dinamiche incestuose e ai “segreti di famiglia” presenti in esse. Prima della estinzione dell’Uomo di Neandertal erano due le specie umane sulla terra. Se è rimasta solo quella dell’Homo Sapiens, lo si deve al fatto che questa specie ha saputo aprirsi allo straniero e alla diversità, evitando di implodere su sé stessa con l’incesto e il cannibalismo. Al cannibalismo non siamo per fortuna ancora arrivati, almeno a quello fisico, ma quanto alle dinamiche incestuose, alla incapacità di lasciare andare i figli, alla paura dello straniero e del diverso colti non come risorsa e patrimonio, ma come minaccia si stiamo neandertalizzando ogni giorno di più. Purtroppo.

Perché stupirci allora, se le nostre case e le nostre famiglie stanno sempre più spesso diventando orribili mattatoi dove ancora non ci si mangia, ma sempre più si è spaesati, angosciati, angosciosamente soli, capaci solo di dilaniarci l’un l’altro, di ucciderci e di uccidere.

Benvenute alle due nuove ministre Josefa Idem e Cécile Kyenge Kashetu. Sono entrambe di origine non italiana e di madrelingua non italiana. Perfetto! Significa prima di tutto che italiani si diventa, si può diventare e si dovrebbe diventare. Significa in secondo luogo che la patria non è un punto di partenza, ma di arrivo e che la nostra identità non è il passato, ma l’avvenire. Significa in terzo luogo che l’Italia ha più di una madrelingua presente anche a livello istituzionale e che anche la nostra già bella lingua è non dato di partenza, ma avvenire e conquista, possibilità di essere ancora più ricca e bella.

Qualunque sia il giudizio su come si sia giunti a questo governo (e chi scrive non è certo né convinto né contento di come si è giunti), queste due nuove ministre sono le benvenute nel cuore, nella mente e nello spirito. Benvenute, Josefa e Cécile! Con voi due l’Italia è più bella.

I giornali dicono che papa Francesco sta cercando una soluzione perché chi è separato o divorziato possa ancora godere del sacramento della Eucarestia. Finalmente!

A mio parere, andrebbe subito affermato un principio: a differenza di quanto oggi generalmente si pensa e/o si lascia pensare, la responsabilità o la “colpa” della separazione o del divorzio non è di per sé di chi chiede e avvia il procedimento di separazione o chiede il divorzio. Come l’esperienza clinica dice (ne ho parlato con alcuni colleghi), molto, molto spesso chi chiede o avvia i procedimenti, lo fa dopo anni o decenni nei quali ha subito le prevaricazioni, le angherie e – non di rado – anche la violenza fisica del coniuge. Molto, molto spesso la richiesta di separazione o di divorzio è l’unica possibilità per non subire più o, almeno, per limitare il perdurare di tali umilianti e offensive situazioni. Si tratta di una iniziativa, mi si permetta l’espressione, di legittima difesa contro una violenza subita quotidianamente e pervasivamente, quasi sempre in solitudine e senza che nessuno comprenda e aiuti, uno stillicidio che uccide poco per volta il cuore, l’anima e il corpo. Se oltre al danno c’è poi anche la beffa di sentirsi considerati “colpevoli”, allora che resta? Eppure oggi troppo spesso questa beffa viene perpetrata, così che il danno viene amplificato e scavato a dismisura.

Si pensi a quei coniugi che, pesantemente vittime di mariti o mogli gravemente disturbati (per esempio colpiti da disturbo narcisistico di personalità o da disturbo antisociale di personalità o da sindromi paranoidi o da disturbi psicotici mai davvero affrontati), si vedono moralmente e “colpevolmente” condannati dal proprio ambiente sociale e magari dal proprio parroco o curato. Si pensi a come – molto, molto spesso – questi coniugi, in quanto “colpevoli” di avere chiesto la separazione o il divorzio, non soltanto non possano accostarsi alla Eucarestia e godere a pieno della vicinanza di Gesù e in lui e con lui della presenza del Padre e della consolazione dello Spirito Santo, ma debbano vedere che il o la coniuge lo può fare, proprio perché, “poveretto/a!”, lui o lei è la “vittima” di chi ha chiesto la separazione o il divorzio e quindi non è soggettivamente “colpevole”.

Anche se non è mio costume affermarlo, lasciatemi per una volta dire: “io l’avevo detto”. Il 15 ottobre del 2010, a fatti caldi, sull’uccisione di Sarah Scazzi scrissi il post qui sotto citato. Alla luce della odierna sentenza (condanna all’ergastolo di Sabrina e Cosima Misseri e 8 anni a Michele), quello scritto appare molto … profetico, a riprova che un’ottica come quella concessa dalla clinica psicoterapeutica sistemico-relazionale possa e sappia leggere i fatti, interpretarli e, per chi lo voglia davvero, curarli e prevenirli. La sentenza di Taranto ribadisce ancora una volta quanto problematiche siano la famiglia e le sue dinamiche spesso patologiche o anche tragicamente omicide, a dispetto di tutto il retoricume anche cattolico che tende a idealizzare la famiglia “tradizionale”, come se fosse il bene assoluto e indiscutibile.

Sabrina Misseri, Sarah Scazzi e il pensiero magico. Perché Sabrina uccide Sarah

A seguito di questo post mi fu fatta un’intervista da parte di “Famiglia Cristiana”, che feci ben volentieri (vedi Avetrana, l’incesto, l’omicidio, il sesso (prima risposta a un giornalista di “Famiglia Cristiana”) ); venni pure invitato al programma pomeridiano di Barbara D’Urso, invito che naturalmente rifiutai dato che veniva da ambiente Mediaset.

Dal mio solito amico ricevo queste domande:

Dottor Cortesi,

qual’è la sua valutazione, da psicoterapeuta della scuola sistemico-relazionale, del caso di Pietro Maso, libero dopo 22 anni di carcere? Ho visto il ragazzo, che a vent’anni uccise entrambi i genitori, oggi un uomo di 44 anni, uscire dalla prigione e allontanarsi da solo, senza particolare entusiasmo, guardandosi attorno smarrito e quasi assente. Che cosa è rimasto della sua “relazione” con i genitori. Cosa pensa quando è solo? Che cosa crede ci sia nel profondo della sua psiche? E perché una persona così sembra volere affrontare di nuovo la vita e non è schiacciato dall’istinto del suicidio, mentre si abbandonano a questa prospettiva imprenditori falliti e manager corrotti?

Non so se Pietro in carcere abbia o non abbia usufruito del proprio diritto a essere aiutato, se abbia o meno fatto un percorso terapeutico e, qualora l’abbia fatto, che tipo di approccio sia stato seguito e che qualità di intervento ci sia o non ci sia stata. Secondo quanto si sa delle carceri italiane, è difficile sperare più di tanto. Quasi sicuramente – temo – non è stato seguito un approccio sistemico, dato che, a quanto vedo, difficilmente la stampa, le istituzioni e, in queste, la magistratura ricorrono oggi a professionisti di scuola sistemico-relazionale; a quanto vedo, molti magistrati manco sanno di che cosa si tratti. Si tratta invece dell’approccio più ad hoc per casi come quello di Pietro (o, per citare altri esempi conosciuti, di Erica di Novi Ligure o della mamma di Cogne o della zia e cugina di Avetrana); si tratta di un approccio prezioso e unico, capace, oltre che di risolvere situazioni, anche di capire e, ancora meglio, di prevenire tragiche situazioni, quali quelle appena ricordate. Penso, in particolare, a quante dolorose situazioni familiari e di coppia verrebbero risolte o evitate se, nei confronti dell’approccio sistemico-relazionale, non ci fossero ignoranza e preclusione ingiustificate.

Data la mia ignoranza del caso Maso, le considerazioni che seguono non possono non essere che di massima; sarebbero le considerazioni di partenza dalle quali sarei partito io, se avessi dovuto prendermi cura di Pietro.

Di sicuro Pietro era all’interno di una famiglia caratterizzata da “giochi psicotici” (l’espressione è di Mara Selvini Palazzoli), cioè da dinamiche relazionali disfunzionali che durano da almeno tre generazioni e che hanno il loro fulcro nello stallo relazionale della coppia coniugale-genitoriale (marito-moglie e padre-madre) dei genitori di Pietro. Senza spesso rendersene minimamente conto (pensando anzi di essere buoni genitori e buoni coniugi e venendo molte volte considerati tali da conoscenti, parenti e amici), di solito queste coppie usano i figli e la propria funzione genitoriale come alibi per non vedere e per non affrontare lo stallo relazionale di coppia; di fatto hanno bisogno di fare i genitori ad oltranza, di restare genitori per sempre, perché altrimenti dovrebbero affrontare il problema della loro situazioni di coppia, cosa che, a causa della storia familiare e delle carenze individuali, non sono assolutamente in grado di fare senza l’aiuto di un’adeguata psicoterapia sistemica. Sono genitori che, letteralmente, si buttano sul figlio (o sulla figlia) proiettando su di lui i propri bisogni non risolti, le proprie frustrazioni, caricandolo delle proprie aspettative, senza mai davvero amare il figlio per quello che è e per come è, senza mai davvero tenere conto di che cosa il figlio (o la figlia) abbia davvero bisogno, di quali siano i suoi vissuti, i suoi desideri, i suoi affetti, la sua età, le sue dinamiche evolutive, il suo senso della vita e della felicità. Spesso, senza mai davvero amarlo, lo controllano o, all’opposto, lo lasciano nella indifferenza assoluta, magari coprendolo di regali costosi, di vestiti firmati, di livelli di vita assurdi. Sono situazioni molto diffuse, fino a rasentare una epidemica “normalità”; se ci penso, mi stupisce non tanto il fatto che ci siano casi come quello di Pietro o di Erica o di Ferdinando Carretta (a Parma uccise padre, madre e fratello), quanto il fatto che questi casi così siano pochi. Penso che siano pochi, perché oggi la crisi familiare è più implosiva che esplosiva (ho titolato Implosione l’ultimo mio libro su famiglia, società e politica); penso siano pochi perché oggi a soccombere è quasi sempre il figlio (o la figlia), travolto dai giochi malati della famiglia e, a causa di questi, spinto nell’abisso della psicosi, della schizofrenia, della anoressia, della bulimia, delle dipendenze più devastanti, dei disturbi di personalità. Ma nessuno o quasi parla di ciò come dell’estremo opposto (ma di pari peso) dei casi di Pietro o di Erica o di Ferdinando. So di essere estremamente provocatorio nel dirlo, ma non so chi stia peggio tra, di qua, Pietro Maso che uccide i genitori e, di là, un figlio schizofrenico o una figlia anoressica che sono uccisi psicologicamente dal “gioco psicotico” familiare.

Se penso che difficilmente in carcere questo uomo è stato davvero aiutato in modo corretto e adeguato, allora l’immagine di Pietro che esce dal carcere non mi dà tanto l’idea di un uomo che “affronta la vita”, quanto quella di un figlio che resta figlio per sempre e che per sempre resterà nella incapacità di crescere, di individuarsi e identificarsi, di amare e di essere amato: potrà sì lavorare, ma non crescerà; potrà sì fare sesso o procreare, ma non amerà e non sarà mai davvero amato. Certi genitori (e certi giochi familiari disfunzionali) sono ancora più micidiali da morti che da vivi, soprattutto se gli altri (la gente, l’opinione pubblica, le istituzioni, i tuoi stessi amici e parenti, i tuoi compaesani) continuano – e continuano!!! – a vederti come l’assassino, il mostro, il degenerato.

Né va dimenticato che, chi sta all’interno di giochi familiari psicotici e agisce-subisce fatti estremi quali l’omicidio o il suicidio, è come se vivesse un tempo fissato, bloccato. Come ho più volte scritto, chi uccide possiede per sempre la propria vittima ed è per sempre posseduto dalla propria vittima, è per sempre l’azione che ha compiuto. Molto probabilmente in fondo a Pietro c’è il bambino mai davvero amato che, con l’omicidio, trattiene per sempre in sé e con sé la propria mamma e il proprio papà. Qualora, ripeto, non ci sia stato in questi anni un adeguato intervento su di lui, il primo obiettivo terapeutico di un intervento su Pietro dovrebbe essere quello teso a portare alla luce quel bambino, a farlo nascere staccando il magico cordone ombelicale che , con il possesso omicida, lo tiene ancora legato ai suoi genitori. Paradossalmente si tratta di aiutare Pietro a “uccidere” davvero e finalmente i genitori; del resto ogni figlio, che voglia evolvere e diventare adulto, non può non “uccidere” i propri genitori, così da diventare figlio di sé stesso. Pietro o Erica o Ferdinando hanno ucciso i propri genitori fisicamente, proprio perché il gioco relazionale disfunzionale non permetteva loro di “ucciderli” psicologicamente staccandosi da loro, diventando autonomi, essendo sé stessi senza più dipendere da loro e dalla loro presenza. Pietro, Erica, Ferdinando hanno uccisi i genitori senza le virgolette, perché non potevano “ucciderli” con le virgolette, cioè all’interno di un corretto processo evolutivo di svincolo e di emancipazione. E, al di fuori della famiglia, nessuno ha visto la loro situazione, nessuno l’ha letta per quello che era, e nessuno li ha – nei limiti del possibile – aiutati. Nessuno, né i parenti, né gli amici, né le istituzioni. Prima che omicidi, Pietro, Erica, Ferdinando sono vittime della violenza e del gioco psicotico della famiglia all’interno della quale sono nati e vissuti; oggi rischiano di restare vittime della violenza e del gioco psicotico di un sistema sociale e istituzionale che, nella propria ignoranza del problema, rischia soltanto – divenendone complice ed esecutore – di continuare e amplificare il gioco psicotico e la violenza della famiglia di queste persone. È questo il grande rischio attuale: di uccidere chi non ha saputo “uccidere”.

Paradossalmente Pietro, uccidendoli, ha fatto e continuato il gioco dei genitori, li ha resi genitori per sempre, se li è per sempre caricati sulle spalle senza più poterli lasciare, mentre è diritto-dovere di ogni figlio lasciare i genitori (la Bibbia, più decisa e radicale, parla non di lasciare, ma addirittura di “abbandonare” e mette questo termine nella bocca stessa di Dio). Per questo dico che Pietro è ancora e inesorabilmente figlio, se non sarà partorito a sé stesso e alla propria autonomia di uomo adulto da una corretta psicoterapia.

Ripeto, non so se Pietro sia stato davvero aiutato in questi anni di carcere. Se, come temo, non lo è stato, penso che il suo vero carcere e il suo vero Calvario comincino adesso. Non si arrabbino i lettori, ma a Pietro vanno tutta la mia empatia di terapeuta e tutta la mia simpatia di uomo. Forza Pietro! Se nessuno ti ha ancora aiutato davvero, cerca aiuto. Esci tu dal carcere, quello vero.

Nelle domande che mi rivolge, il mio amico lascia trapelare la possibilità del suicidio. Spesso chi sopravvive giunge a simili azioni. In contesto per certi aspetti (solo per certi aspetti!!!) diverso è l’esito cui sono arrivati i sopravvissuti di grandi stermini o catastrofi, per esempio molti sopravvissuti alla Shoah, quali Primo Levi o Bruno Bettelheim. Non si scandalizzi il lettore: accostare gli autori di stragi familiari ai sopravvissuti alla Shoah non è sacrilega mancanza di rispetto o cinica assenza delle proporzioni. I sopravvissuti alla Shoah che si sono suicidati lo hanno fatto, a mio parere, quando e perché si sono sentiti non ascoltati e non creduti nel proprio urlo di testimonianza della tragedia, quando e perché non hanno potuto nascere dopo la sopravvivenza, quando e perché, per usare i termini di Primo Levi, hanno capito che restavano e di nuovo venivano sommersi senza potere mai essere salvati. Caro Pietro, non lasciarti sommergere.

Quanto poi al suicidio di imprenditori, manager o poveri cristi (vedi la coppia e il cognato di Civitanova Marche) aspetto nuove domande dal mio amico. Per ora mi limito a precisare, prima di tutto, che il suicidio non è un “istinto”, in secondo luogo che, a differenza di quanto si vuole fare o lasciare credere, non è la crisi di per sé la “colpevole” di questi eventi. Ma, ripeto, aspetto domande precise.

In questo Sabato Santo ho pensato spesso ai miei due amici Elena e Mario. All’inizio dello scorso novembre hanno cominciato a vivere il dolore forse più grande che possa capitare: la morte di una loro creatura, di 34 anni.

Pochi giorni dopo, Mario ho scritto un commento per questo blog, proprio a riflessione del Sabato Santo:

«Leggevo in questi giorni un pensiero di D. Bonhoeffer, tratto dal suo libro Resistenza e Resa:

Non c’è nulla che possa rimpiazzare l’assenza di una persona cara, né dobbiamo tentare di farlo; è un fatto che dobbiamo semplicemente portare con sé, e davanti al quale tenere duro; a prima vista è molto impegnativo, mentre è anche una grande consolazione: perché, rimanendo aperto il vuoto, si resta, da una parte e dall’altra legati a esso. Si sbaglia quando si dice che Dio riempie il vuoto: non lo riempie affatto, anzi lo mantiene aperto, e ci aiuta in questo modo a conservare l’autentica comunione tra di noi, sia pure nel dolore. Inoltre: quanto più belli e densi sono i ricordi, tanto più pesante è la separazione. Ma la gratitudine trasforma il tormento del ricordo in una gioia silenziosa….”

Per esperienza diretta del Sabato di Maria.

mario»

È il sentire tremendo e doloroso dello Stabat Mater, quando si sente vicina Maria, ci si sente come Lei, che pure ha visto morire un figlio giovane, della stessa età della figlia di Elena e Mario. Non ci avevo mai pensato: il Sabato Santo è giorno di Maria, è sacramento mariano; è il giorno non soltanto del vuoto, ma – ancora di più – della vicinanza di Maria; è il giorno non della assenza, ma di una presenza nuova, diversa, altra, tremendamente e stupendamente altra.

È un giorno non di solitudine, ma di incontro. Ci si incontra in modo totale, capace di una discesa agli inferi, che salva nell’apparente silenzio tutte le voci dei tempi e tutti gli incontri e i “ciao” della storia e della vita, a ricordarci che ciò che più importa e conta è l’incontro, perché gli incontri non muoiono mai. È un giorno non di disperazione, ma di speranza. È sempre un po’ disperata la speranza: se non fosse un po’ disperata, come potrebbe sconfinare nella Risurrezione e nella gioia. Il nuovo Papa ci ha ricordato che la risposta di Dio è la croce, ma è una croce di Risurrezione, una croce con Maria. Mai come di Sabato Santo si incontra Maria; mai come di Sabato Sabato si incontra l’umanità mariana e cristiana di Gesù; mai come di Sabato Sabato si incontra la divinità mariana e cristiana di Dio.

Di Sabato Santo ci si può comunicare, così che nella Eucarestia si continua a incontrare Gesù, il corpo e il sangue di Gesù, il primo grande “figlio dell’uomo”, l’Emanuele, che anche nella morte continua a dirci che “Dio è con noi”.

Non c’è il vuoto. Quello che noi osiamo chiamare “vuoto” è tensione relazionale, è relazione ritrovata, in-ventata, risorta. Nessuna relazione muore mai.

In Elena e Mario, nella tremenda-stupenda speranza del loro Sabato Santo, abbraccio Maria e Gesù, abbraccio le epoche e le storie, abbraccio tutti gli incontri e le speranza, le disperate speranze che sanno, possono e vogliono risorgere.

Morire di venerdì santo,

quando Gesù se ne va nell’abisso della morte.

Dire a Gesù: “vengo anch’io”,

quando Gesù ti dice:

sì, anima magica di bambino,

sì vieni anche tu,

con me la morte salva,

e fa risorgere”.

Morire di venerdì santo,

il giorno più assurdo e demenziale,

quando l’uomo crede e pretende

di potere uccidere Dio.

Morire di venerdì santo,

il giorno della strana surreale innocenza,

quando Gesù perdona tutto e salva tutto,

quando Gesù salva tutto e perdona tutto.

Morire da creatura tenera e innocente,

dolce e intelligente,

morire con Gesù

dicendogli: “vengo anch’io”.

Ciao, Enzo,

poeta strano dei miei vent’anni.

Ti voglio bene.